Memorie di un panchinaro

(parole e disegno) di Alessandro Trasciatti

Voglio dirlo subito: ho un grande passato da calciatore. Giocavo in una squadra che si chiamava Picciorana. Dico sul serio. Il Picciorana non era un incrocio tra un piccione e una rana. Picciorana è un paese vicino a Lucca e io sono di lì. Il Picciorana era uno squadrone che quando gli altri sentivano il nome tremavano di paura. Picciorana-S. Lorenzo a Vaccoli 3-0. Picciorana-Lunata 4-0. Picciorana-Porta Elisa 5-0. Era sempre così. Eravamo i più forti. Ho detto che ho un grande passato da calciatore. Forse sarebbe meglio dire che ho un grande passato da guardatore. Sì, perché io le partite le guardavo dalla panchina. In cinque anni sarò entrato in campo cinque minuti in tutto. Però come guardavo le partite io non c’era nessuno, ero meglio dell’allenatore. Davo consigli, incitavo, sbraitavo, correvo lungo la linea di bordocampo e smoccolavo contro l’arbitro. Così una volta sono stato espulso. E io gli dicevo, all’arbitro: «Ma come? Espulso se non gioco neanche?» Ma lui niente, tirò fuori il cartellino rosso e mi fece mandare negli spogliatoi. E io giù a smoccolare negli spogliatoi, perché non mi sembrava una cosa tanto regolare, questa del cartellino rosso. Così la domenica dopo non ho potuto neanche sedermi in panchina. Però portieretrasciattivoglio dire anche un’altra cosa: io sbraitavo come un ossesso, ma non ero cattivo. Era che non mi facevano giocare. Se avessi giocato avrei urlato di meno. A tirare calci al pallone ci si sfoga, a restare in panchina mica tanto. Meno male che c’erano le partite di allenamento, in quelle almeno giocavo sempre. Una volta tirai una punizione di prima dal limite dell’area. Presi in pieno l’incrocio dei pali, il pallone rimbalzò e mi capitò tra i piedi un’altra volta. Tirai un’altra bordata, questa volta di controbalzo. Porcocane, non entrò neanche quella. Sfiorò l’incrocio sempre dalla stessa parte, ma andò sopra di un palmo. Non c’era verso, non mi riusciva fare gol neanche in allenamento. E allora giù a smoccolare, perché a tirare calci al pallone ci si sfoga, ma se non fai mai gol mica tanto. Comunque potevo dire di giocare nel Picciorana, un vero squadrone. Picciorana-S. Leonardo in Treponzio 6-1. Eravamo proprio i migliori. O forse erano i migliori. No, no, eravamo, c’ero anch’io, anche se sempre in panchina.

Dopo cinque anni, però, mi sono rotto i coglioni. Così ho fatto le valigie e sono andato a giocare nel Porta Elisa, che era una squadra di schiappe. Mi trattavano con i guanti solo per il fatto che arrivassi dal Picciorana. Poi, al primo allenamento, mi bastò fargli vedere due finte di corpo, un tiro d’esterno e un colpo di tacco per essere soprannominato «il fuoriclasse». Cazzo, una bella soddisfazione. Però devo essere nato con la luna storta perché quando iniziò il campionato andai nel pallone. Insomma, finalmente giocavo titolare, ma «sentivo» troppo le partite e in campo non combinavo un accidente: passaggi troppo lunghi, stop sbagliati, neanche un gol. Allora il Bianchi, che era il guardiano del campo ma contava più di allenatore e presidente messi insieme, disse che ero un buono a nulla, ma siccome mancavano giocatori potevo restare. Però sarei andato nella squadra di quelli più piccoli, tanto non se ne sarebbe accorto nessuno. Così con quelli che avevano due anni meno di me qualche cosa combinavo, non tanto, ma qualcosa sì. Tutto sommato ero soddisfatto, però alla fine qualcuno fece la spia e scoppiò uno scandalo. L’ultima partita che giocai, l’arbitro venne negli spogliatoi e mi disse: «Di che anno sei, te?», «Del ’67» gli risposi, «Non mi prendere per il culo, te sei del ’65» fece lui. Infatti era vero. E allora venni squalificato per tutto l’anno e al Bianchi gli toccò pagare centomila lire di multa, che per l’epoca non era mica poco. Non è una bella storia. Forse la multa avrebbe dovuto pagarla la società, ma io so che i soldi li tirò fuori proprio il Bianchi. Era un omone che parlava svelto e non si capiva un mazzapicchio di quel che diceva, a parte le bestemmie. Sembrava Gambadilegno con i capelli bianchi. Faceva tutto lui, puliva gli spogliatoi, tagliava l’erba, decideva le formazioni, comandava tutti insomma. Così gli fecero anche pagare la multa.

Il Porta Elisa perdeva sempre. Non potendo mandare via i giocatori (non si sarebbe salvato uno solo di noi), un bel giorno venne licenziato l’allenatore. Il nuovo mister era un tipo tosto. Si chiamava Puccetti. Ci fece fare un allenamento e in quattro e quattr’otto cambiò tutto. Lui sì che se ne intendeva di calcio, mica quell’altro. Gli bastò un’occhiata mentre ci allenavamo per capire dove mettere le mani. Io avevo sempre giocato a centrocampo, di solito mediano, qualche volta mezz’ala destra, in casi eccezionali mi avevano fatto avanzare fino a coprire l’ala destra. Ebbene, il Puccetti mi guardò e mi disse: «Trasciatti, te vai bene come stopper». Erano tempi che si parlava e giocava così, ruoli fissi, parole rigide. Io di marcature non ci capivo mica tanto, ma se lo diceva il Puccetti andava bene. Così la domenica scendemmo in campo contro il San Macario in Piano, che non era un granché e si poteva anche battere. Come stopper dovevo guardare a vista il centravanti. Lo marcai così stretto che quel bastardo, per farmi dispetto, fece una doppietta. Il primo tempo finimmo così, sotto di due gol a zero. Negli spogliatoi il Puccetti ci dette una bella strigliata e rientrammo in campo caricatissimi. Sfiorammo un palo, prendemmo una traversa, facemmo un sacco di tiri a caso, e poi sparavamo calci a tutto quello che ci capitava: pallone, stinchi, zolle di terra, tutti rovesciati all’attacco come disperati. Un casino così non si era mai visto, sembravamo un branco di belve inferocite che correvano in qua e in là, secondo dove andava il pallone senza combinare un accidente. Ci pensai io a dare una svolta alla partita. Quelli del San Macario in Piano fecero un’azione di rimessa, lanciarono un pallone lungo che dalla difesa scavalcò il centrocampo e rimbalzò fino al limite della nostra area di rigore. Io ero l’ultimo difensore e avevo alle calcagna quel porco del centravanti che voleva fare una tripletta. Ma non gliela detti quella soddisfazione. Lo anticipai e feci un retropassaggio al portiere. Un pallonetto da manuale. Autogol. San Macario in Piano-Porta Elisa 3-0. Cazzo, che partita.

Prima ho detto che le mie squadre sono state il Picciorana e il Porta Elisa. In realtà la mia gloriosa carriera calcistica è iniziata prima, in una squadretta che si chiamava Bastardo. Anche qui voglio che mi si creda: il Bastardo è un quartiere di Lucca, il quartiere dove sono nato. Avevo anche un po’ di complessi perché noi del Bastardo ci chiamavano tutti bastardi e non è una bella cosa da piccoli. Poi da grande ho capito che quel quartiere lì non si chiama Bastardo perché ci stanno delle mogli leggere che incornano i mariti, ma perché c’è un baluardo della cinta muraria che è diverso da tutti gli altri e allora è detto Bastardo. Ma insomma, il discorso è un altro e cioè che io nel Bastardo ho cominciato a fare il portiere. La prima partita che giocai, proprio la prima in assoluto della mia vita, me la ricordo come un bel sogno. Avevo addosso una maglia nera, tipo portiere anni Trenta, lunga lunga, che mi ero infilato nei pantaloncini (neri anche quelli) e mi sbucava di sotto, e le maniche le avevo avvoltolate tre o quattro volte. Avevo anche un berrettino con la visiera. E dei guantoni lunghissimi, quasi da baseball. Sembravo il figliolo di un portiere sovietico con la divisa del suo babbo. Quando entrai in campo, piccolino com’ero, con tutta quella maglieria addosso, ci fu un applauso incredibile. Tremavo anche un po’. Ma poi, quando arrivò il primo tiro e lo parai benissimo, ci fu un altro applauso e mi gasai a bestia. E allora, quando mi tiravano in porta, giù a tuffarmi da una parte e dall’altra, e poi uscite sui piedi degli avversari, colpi di pugno sui corner… ero scatenato. Un paio di gol li presi, ma chi se ne frega, erano assai di più quelli che evitai. Insomma, la mia carriera la cominciai bene. Però poi, dopo quella partita bellissima, cominciammo a fare degli allenamenti più seri e volevano che imparassi a tuffarmi come fanno i veri portieri, che partono in volo verso il pallone staccando tutti e due i piedi da terra, e non fanno caso a dove vanno a finire quando atterrano, cioè ci pensano in un secondo momento, mentre volano verso il pallone. Ecco, lì mi bloccai. Tutti e due i piedi non riuscivo mica a staccarli, o meglio, solo per volettini minimi, come un passerotto. Forse era colpa delle vertigini. Di lì è andato tutto storto.

[…]

Mi ricordo una volta che era una giornata da cani, d’inverno, con una pioggia dura e diaccia come quella che c’è in certi posti dell’inferno di Dante. Non c’era neanche uno spettatore, ma proprio nessuno dico, nemmeno un babbo o un cugino antipatico. Era già tanto se c’eravamo noi giocatori. Addirittura mancava anche qualcuno che facesse da guardalinee. A quei tempi erano le squadre che fornivano i guardalinee, uno per parte, e si piazzavano a controllare letteralmente mezzo campo, per largo da una parte all’altra. Come facessero non si sa, anzi sì: non vedevano un cazzo. E poi tanto non servivano a niente perché alzavano la bandierina sempre a favore della propria squadra. Stavano lì per figura, decideva l’arbitro. Non ci si poteva mica fidare di un guardalinee dell’altra squadra. Insomma, volevo dire che quella volta lì mi hanno messo a fare il guardalinee, ma io non ne avevo voglia e poi non sapevo neanche fare. Nessuno a darmi istruzioni, come se uno nascesse guardalinee. Così sono stato tutto il tempo a trotterellare lungo la linea laterale e a sventolare la bandierina a casaccio. Siccome mi annoiavo e tremavo dal freddo ho cominciato a fare dei giochetti con la bandierina, tipo tirarla in aria e riprenderla al volo, farmela passare sotto una gamba, tenerla in equilibrio su un dito…insomma sembravo uno sbandieratore di Siena. Deve essere per questo che a un certo punto l’arbitro è arrivato da me di corsa, tutto ingrugnito, mi si è piantato davanti e mi ha detto a voce bassa ma cattiva: «Vuoi che te la ficchi in culo la bandierina?», e io gli ho risposto: «In culo ce la ficchi alla tu’ mamma». E anche quella volta lì, inspiegabilmente, sono stato espulso.

Un’altra volta, invece, era estate ed era un caldo boia, il campo era quasi senza erba, tutto un polverone. Si giocava contro il Capannori. Quel giorno lì non c’erano magliette per tutti. Non so, forse eravamo in troppi, oppure quell’omone del Bianchi non aveva fatto in tempo a fare la lavatrice, fatto sta che a me toccarono solo i pantaloncini. Mi sedetti in panchina indossando una camicettina a fiorellini che mi faceva vergognare come un ladro, anche perché quella volta lì c’era stranamente un po’ di pubblico e anche diverse ragazzine belline, e io dovevo stare lì con i pantaloncini neri e la camicina a fiori. La partita me la ricordo male. Era tutto un arruffio di gente per il campo, soprattutto davanti alla nostra porta. Però l’allenatore era magnanimo e faceva entrare tutti, così a cinque minuti dalla fine toccò a me. C’è una mischia sotto la porta avversaria finalmente. Arriva un cross da destra, uno manca il pallone di testa, un altro fa un liscio clamoroso e io vedo arrivare il pallone verso di me, sono libero, non mi marca nessuno, mi avvento sulla palla, la prendo di collo pieno, una bordata che non la sparavo da mesi. Appena un dito sopra la traversa. Scoppia un clamore intorno a me, io penso di ammirazione, torno indietro trotterellando tutto soddisfatto, cazzo, ho fatto un bel tiro. Però nessuno che mi si avvicina. Fra me e me dico: «Com’è che i compagni non si complimentano?» Anzi, mi guardano un po’ storto. Il fatto è che ero a due metri dalla porta, che oltretutto era vuota perché il portiere era uscito a vuoto. Praticamente mi sono mangiato un gol già fatto. Ma questo lo capisco solo quando mi si fa incontro uno dell’altra squadra, mi dà la mano e mi dice: «Grazie, sei proprio in gamba». A quel punto mi sembra che i fiorellini della mia camicina comincino a lampeggiare come le luci di un albero di Natale, ma forse è solo che sono rosso come un peperone e ho la faccia in fiamme per la vergogna. Le ragazzine belline tutte a ridere. Viviamo in un paese di merda.

[Alessandro Trasciatti è uno scrittore e traduttore lucchese. Il suo ultimo libro è Scampoli, Oèdipus, 2017, da cui è tratto questo racconto.]

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