di Gino Cervi
«Quel poco che so intorno alla morale degli uomini, lo devo al calcio.»
Più o meno così dichiarò Albert Camus a chi gli chiedeva perché fosse così legato al “gioco più bello del mondo”. Erano trascorsi pochi giorni, nell’ottobre del 1957, da quando l’autore de La peste e de Lo straniero aveva ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. Al Parc de Princes, giocavano il Racing Paris contro il Monaco: il portiere parigino aveva appena commesso un clamoroso errore e, tra i fischi dello stadio, raccoglieva la palla dal fondo della rete. Un giornalista in tribuna si rivolse allo scrittore: «Non bisogna accanirsi. Bisogna averlo provato, per capire quanto è difficile», commentò Camus.
Albert Camus, classe 1913, aveva sedici anni quando aveva provato a difendere una porta da calcio. Era ad Algeri, alla fine degli anni Venti e Albert giocava come portiere nella squadra giovanile del Racing Universitaire d’Alger, una polisportiva fondata poco tempo prima, nel 1927. C’è una foto che lo ritrae sorridente in mezzo ai compagni di squadra: è quello al centro, seduto in prima fila, davanti a cinque accosciati, e ad altri cinque in piedi, più un tipo in borghese, forse l’allenatore. La faccia di Albert è mezza ombreggiata dalla coppola, che all’epoca erano soliti indossare i portieri, come il grande, magnetico Ricardo Zamora, che in quegli anni difendeva la porta della nazionale spagnola.
Un poco spagnolo era anche Camus: suo padre era un pied-noir, figlio di una famiglia tra le prime a trasferirsi in Algeria, dal 1834 colonia francese; ma la madre, una povera sordastra, era di origine minorchina. Del padre, Albert non ricordava quasi nulla: era partito per il fronte nel settembre del 1914 ed era morto neanche un mese dopo, colpito al volto da un obice. Il piccolo Albert cresce con la nonna, una tipa che non va troppo per il sottile: ad esempio, giocare a calcio è un lusso che i poveri non si possono permettere. Tutte le volte che torna a casa, ad Albert vengono controllate le suole: se sono consumate, perché ha passato il tempo a rincorrere un pallone, le busca. Albert trova un rimedio: giocare in porta, dove si corre di meno e non si consumano le scarpe. Pare cavarsela mica male tra i pali, il piccolo Albert. Ma la bella stagione da gardien-but è breve. Alla fine delle partite, ad Albert capita sempre più spesso di sentirsi stanco. E di sputare sangue. Nel dicembre del 1930, la diagnosi dei medici fu impietosa: tubercolosi. Basta calcio.
Camus guarì e divenne il grande scrittore che tutti conoscono. A inizio anni Quaranta provò a tornare a giocare a calcio, questa volta non in porta (anche qui c’è una foto che lo ritrae, il terzo da sinistra tra gli accosciati). Ma si accorse subito che non era più il caso. Ricordando quel tentativo, scrisse: «La volta che rimisi, anni dopo, le scarpette da calcio, mi accorsi che ne era passato di tempo. A metà del primo tempo, avevo la lingua penzoloni come quei cani della Cabilia che si vedono girare alle due del pomeriggio, nel mese d’agosto, per le strade di Tizi-Ouzou».
Sempre a proposito della sua esperienza di calciatore, Camus disse che quello che il campo da calcio gli aveva insegnato era che «il pallone non va mai verso un giocatore dove lui si aspetta che venga». Questo lo aveva aiutato molto nella vita, soprattutto «nelle grandi città, dove solitamente la gente non è propriamente quella di cui ti puoi fidare».
Il mattino del 4 gennaio 1960, lungo la Route Nationale 5, poco dopo Pont-sur-Yonne, nei pressi di una località chiamata Le Petit-Villeblevin, anche l’auto su cui viaggiava Albert Camus, la potentissima Facel Vega, modello FV3B, guidata a tutta velocità dall’editore Michel Gallimard, come un pallone dispettoso, andò a finire dove nessuno se lo aspettava: contro un platano. Delle auto, come delle grandi città, non ci si può mai fidare. E quello che aveva imparato sui campi di calcio nulla servì ad Albert Camus, seduto di fianco al guidatore.
[Gino Cervi è scrittore, giornalista, editor. Lavora, legge, scrive, pedala e palleggia in ordine sparso e facendo spesso confusione. Per anni è stato uno dei registi di Em Bycicleta, presidio di fabulazione sportiva.]