di Matteo Di Giulio
Una coincidenza del destino, di quelle che è impossibile programmare, mi ha portato in Germania durante la finale degli ultimi due mondiali di calcio.
Il 2014 è l’anno in cui, per puro caso, ho scoperto l’esistenza di Bremen.
«Dove andiamo in vacanza quest’anno?»
«Non lo so», rispondo a Y., la mia compagna. «Hai qualche idea?»
I soldi non sono mai troppi. Boston, la Thailandia o Buenos Aires erano escluse in partenza. Non che avessimo mai davvero pensato di andarci, ma sognare non ha prezzo. Anche accontentarsi ha i suoi vantaggi e un paio di biglietti Ryanair per la città dei musicanti costano come una cena fuori a Milano per due in un ristorante etnico. Uno non di lusso.
«Cinquantun euro andata e ritorno per tutti e due, che ne dici?»
«Vediamo le foto su Google».
La città sembra bella.
«L’hai mai sentita nominare?»
«Io mi ricordo solo del Werder Bremen», dico.
«La fiaba dei fratelli Grimm no?»
«No».
«Sei proprio un ignorante», mi sento dire, non a torto.
Clicco, acquisto confermato.
L’ultimo giorno prima della partenza la Germania schiaccia il Brasile in semifinale. 7-1, mai vista una dimostrazione di forza così netta prima d’ora.
La finale si gioca qualche giorno più tardi e la tensione pervade la città.
Ci siamo trovati bene, abbiamo fatto amicizia con un paio di persone che vivono qui e che ci hanno invitati quella sera a bere un paio di birre tutti insieme.
«Sei stanca o andiamo?»
«Secondo me c’è da divertirsi».
La partita in sé è troppo tesa. L’Argentina scalcia come un mulo e fa di tutto per non farsi mettere sotto dal panzer teutonico.
Noi cambiamo diversi bar. Prima in un ex bordello che ora è decorato come una grotta di cartapesta, poi in un posto che sembra uscito dagli anni Novanta dove ancora si può fumare dentro, infine nella bettola più scalcinata di Viertel, il quartiere della movida. Il posto si chiama Schänke ed è aperto giorno e notte, tutti i giorni della settimana. Alla finestra, un uomo che vomita in strada. Dentro, una ciurma di punk, metallari e alcolizzati che mettono i brividi.
«Siamo sicuri di voler entrare?», chiediamo, più a noi stessi che altro.
I neo-amici tedeschi dicono che la birra costa poco e ci fanno strada. Ci armiamo di coraggio e speriamo che tutto finisca per il meglio.
Al bancone ci serve una ragazza robusta completamente tatuata e con un’enorme cresta viola. L’odore di fumo è acre, quello di marijuana altrettanto intenso; ma il più forte di tutti, visto che è estate, è quello del sudore. Un lenzuolo e un videoproiettore fanno le veci del maxischermo. L’audio non c’è, o forse è semplicemente zittito dalle grida stridule e dagli insulti dei tifosi tedeschi contro Leo Messi.
«Qui si va ai supplementari», profetizzo; e così sarà.
I punk, i metallari e gli alcolizzati abbassano il tono di voce: più scorrono i minuti, più lo spettro dei rigori si avvicina. Il silenzio è ancora più straniante degli «Scheiße» e dei «Leck mich am Arsch» urlati fino a poco prima. Siamo agli sgoccioli, la delusione dopo il trionfo contro il Brasile si sente tutta. Poi entra Mario Götze e risolve il match a un minuto dalla fine. Messi calcia una punizione sopra la traversa e inizia il delirio.
Usciamo dal locale.
In strada esplodono i fuochi d’artificio. La gente corre a petto nudo gridando, nonostante da pochi secondi una pioggia torrenziale abbia preso il sopravvento. Corriamo anche noi, siamo senza ombrello, ci rifugiamo in un altro pub. Ordiniamo birra, cantiamo con i tedeschi senza capire bene quello che diciamo.
Smette di piovere, la Germania è campione del mondo da un’ora.
C’incamminiamo verso l’albergo, che si trova in un altro quartiere.
La gente è ubriaca, ma tira fuori dei grandi sacchi neri e, poco dopo la mezzanotte, si dà da fare per ripulire le strade da bicchieri di plastica, cocci di vetro, lattine vuote, stelle filanti e i resti dei fuochi d’artificio. Quando arriviamo al cavalcavia davanti alla stazione, incrociamo una specie di corteo di tifosi che arrivano dallo stadio. Cantano e ballano: e noi con loro. Uno si arrampica su un semaforo e io lo filmo. Poi ci scattiamo un selfie insieme.
Dentro la stazione c’è ancora più confusione.
È una grande festa.
Un tedesco vestito con la maglietta di Klose, ex del Werder mai abbastanza rimpianto qui, si mette a ballare con la mia compagna tra un chiosco dove vendono kebab e un bar brasiliano. Poi viene da me e, nonostante la sbronza, in perfetto inglese mi chiede come mi chiamo, mi regala un polsino di spugna con il tricolore nero-giallo-rosso e mi offre una birra.
Arriviamo a destinazione alle due di notte.
La città è stata completamente ripulita: prima dalla pioggia, poi dall’alacrità dei tedeschi. Il giorno dopo molti di loro dovranno andare a lavoro.
«Non vivremo mai più qualcosa del genere, vero?»
«Tra quattro anni torniamo», propongo, «questa Germania è così forte che vincerà almeno tre mondiali di fila».
Nell’estate del 2018 viviamo a Bremen già da diversi mesi.
Quella notte magica, quattro anni prima, è stata complice della nostra idea di trasferirci proprio qui, in questa città di cui non sapevo nulla.
La Germania parte favorita ai mondiali, ma perde subito. 1-0 con il Messico.
La seconda partita, contro la Svezia, meriterebbe un racconto a sé: è una serata stranissima che trascorriamo in strada, a Peterswerder, e la Germania vince all’ultimo secondo contro la Svezia: 2-1. Il mondiale forse è salvo.
Poi arriva la Corea del Sud, che fa 2-0 a sorpresa.
La Germania che doveva schiacciare tutti gli avversari è fuori.
La città non si sporca come nel 2014, né serve ripulirla.
Arriviamo a casa nostra alle nove di sera, ma nessuno di noi pensa più ai prossimi mondiali. Anche i tedeschi, in quel momento, vogliono solo dimenticare tutto.
Il giorno dopo, d’altronde, si deve lavorare.