di Gino Cervi
A ciascuno il suo. Vale anche per i sogni. Per non dire delle interpretazioni.
Il mio, ricorrente da quando ero bambino, è quello di essere Gigi Riva.
Sogno di aver fatto gol e di correre sotto la curva del Sant’Elia. O forse è il vecchio Amsicora?
Ho indosso la maglia bianca, quella con con il colletto rossoblu chiuso dai laccetti.
I tifosi sono folli di felicità. Io alzo i pugni al cielo. Un gesto di esultanza antico, elementare, senza averlo dovuto pensare e provare prima.
Davanti a me il muro della folla dei tifosi serrato come le pietre di un nuraghe.
Per loro io sono l’eroe, un eroe bello come Aiace. E allora tendo il braccio sinistro in avanti, come se reggessi un arco immaginario; il mio sguardo fiero, a specchiarsi nelle migliaia di sguardi fieri di loro, e fieri di me.
La mia maglia ha sulle spalle il numero 11: un segno graffito sul bianco.
Lassù in alto, dove termina la curva-nuraghe, vedo cinque tifosi appollaiati sopra un cartellone pubblicitario “Efisio Meloni Vini Classici”.
Poi mi sveglio.
Ha ragione Javier Marías quando scrive che «il pallone è il recupero settimanale della nostra infanzia». Se fossi capace di scriverlo, un libro , forse un romanzo, su Gigi Riva, detto Rombo-di-Tuono, lo inizierei da qui, da quei cinque arrampicati sul cartellone di Efisio Meloni, e anche da Efisio Meloni e la sua ditta, o da quella del cartellone a fianco, “Carlo Piccia e figli – Impianti di condizionamento”.
Ma io scrivo Alfabeti, anzi in questo caso un ALFABÉTTO GIGGIRRIVA, nel giorno glorioso del cinquantesimo anniversario dello scudetto del Cagliari.
E allora, Ajò! Dimonios! Avanti forza paris. Cominciamo.
A come Amsicora
Il giugno del 215 a.C., nella piana di Cornus, poco a nord di Oristano, nell’entroterra di S. Caterina di Pittinuri, un piccolo esercito di sardo-punico di non più di 5000 uomini attaccò di sorpresa le legioni romane di Tito Manlio Torquato, forti di 22.000 milites e 1200 equites. Superata la sorpresa iniziale, il resto fu un massacro. Oltre tremila sardi morirono sul campo. Il loro capo era il giovane Josto. Il padre di lui, il nobile Amsicora, alleatosi coi cartaginesi, era messo a capo della resistenza contro la conquista romana della Sardegna. Amsicora aveva ordinato al giovane figlio di aspettare; di aspettare che dal mare arrivassero le navi cartaginesi; di aspettare che lui stesso giungesse alla battaglia campale a capo dei sardi pelliti, i sardi “vestiti di pelli”, le tribù barbaricine, da sempre le più irriducibili oppositrici alle invasioni straniere. Ma i rinforzi ritardavano e Josto, come tutti i giovani che fremono di fare da sé, non obbedì. Josto quella volta si salvò, ma la disfatta dei sardo-punici fu solo rimandata. Poco tempo dopo, le legioni romane nella piana del Campidano spazzarono via 12.000 soldati, oltre 3000 ne fecero prigionieri. Josto morì sul campo, trafitto da una freccia scoccata da Quinto Ennio, il poeta-soldato, padre della letteratura latina. Amsicora, fatto prigioniero, si suicidò. La Sardegna poteva dirsi finalmente romana, fatto salvo per le montagne della Barbagia, dove i “pelliti” tornarono ad arroccarsi, senza mai di fatto poter essere assoggettati del tutto. Della città sardo-punica di Cornus che, dicono splendida, fin dalla fine del VI sec. a.C., controllava le coste del mare sardo, non resta quasi traccia. Del nome di Amsicora resta invece traccia nella mia memoria dai tempi delle figurine Panini e “Tutto il calcio minuto per minuto”: ad Amsicora – suono arcaico e misterioso – era intitolato il vecchio stadio di Cagliari, dove nel 1970 i sardi vinsero il loro storico, primo e unico scudetto. E da allora il volto del mitico condottiero sardo-punico assume per me le fattezze di quello eroico di Giggirriva, da Leggiuno, lombardo di “sponda magra” del lago Maggiore, ma da mezzo secolo ormai sardo d’elezione.
B come Bandini e Boninsegna
A Giggirriva piaceva correre veloce con le macchine. Aveva un debole per Lorenzo Bandini, pilota di Formula 1, morto a Montecarlo, intrappolato dentro la sua Ferrari in fiamme, nel maggio del 1967. A Giggirriva piaceva correre con l’Alfa 1600 lungo la costa che da Cagliari porta a Villasimius. Una volta con lui in macchina salì Boninsegna, che quando scese decise di fare un’assicurazione sulla vita.
C come Cagliari e come Congiu Tonino
A Cagliari, nel 1963, Giggirriva non ci voleva andare. Quando ci arrivò per la prima volta atterrando su Elmas sopra un aereo traballante, pensò tra sé e sé che non ci sarebbe rimasto più di un anno. Andò diversamente. Così ha detto in un’intervista a Gianni Mura: «Sono arrivato a Cagliari massacrato dalla vita, incazzato, chiuso e anche cattivo, se mi toccavano reagivo. Ero senza famiglia e ne ho trovate tante: quella del pescatore che m’invitava a cena, quella dell’edicolante, del macellaio, del pastore. Quando giocavamo a Milano, a Torino, c’erano cinque-seimila sardi che arrivavano dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Francia. Mi dispiace di non aver tenuto tutte le loro lettere, ne basterebbe una o due per far capire perché abbiamo amato Cagliari, la Sardegna. Tutti, non solo io. E nessuno di noi giocatori era sardo. Ma eravamo un gruppo forte, solido, senza che nessuno ci avesse mai chiesto di fare gruppo. Rappresentavamo tutta l’isola, lo sapevamo e ci piaceva». E pensare che all’inizio i tifosi lo guardavano storto perché aveva tolto il posto a Su Sirboni, il cinghialino, Tonino Congiu, idolo della curva.
D come De André
Giggirriva come Faber sono arrivati in Sardegna e ci hanno messo radici. Ecco come Riva ricordava di un incontro con De André, l’indomani la scomparsa del cantautore, nel gennaio del 1999: «Eravamo molto simili di carattere… La prima volta che l’ho incontrato è stato nella sua casa di Genova. Io ero un suo ammiratore. Penso di essere stato uno dei primi estimatori delle sue canzoni. Anche lui voleva conoscermi e l’incontro fu organizzato da alcuni giocatori del Genoa. Per dire quanto fossimo simili di carattere, in quell’occasione credo che in un quarto d’ora abbiamo detto sì e no tre parole in due. Poi, dopo qualche whisky, ci siamo sciolti».
E come Efisio Meloni
Come “Efisio Meloni Vini Classici” la ditta col cartellone pubblicitario in cima alla curva.
F come Fausta
Fausta, la sorella maggiore, è stata per Riva, orfano di padre a nove anni, e di madre quando aveva appena iniziato la carriera calcistica, la famiglia. Era la difesa dai giornalisti, che Giggirriva ha sempre preferito evitare, più dei più ruvidi e spigolosi terzini. Perché non gli importava nulla, allora come adesso, di comparire sui giornali. Così Fausta intratteneva i malcapitati, facendoli attendere in salotto, preparando loro un caffè, spesso nell’attesa vana del rientro di Gigi.
G come Gol
Sì, ma quale? Quello contro la Jugoslavia, in nazionale, il 10 giugno 1968, che aprì la strada alla vittoria nell’Europeo? O il gol di testa in tuffo, sempre in maglia azzurra, a Napoli, contro la Germania Est, dove sembra nuotare in volo sullo sfondo delle tribune gremite del San Paolo? O i due che stroncarono a San Siro l’Inter, nell’ottobre del 1970 (Inter-Cagliari 1-3), l’anno dopo lo scudetto e pochi giorni prima di venire stroncato dall’entrata assassina di Hof, a Vienna? O la leggendaria rovesciata al Romeo Menti di Vicenza, il 18 gennaio 1970, icona di un calcio ancora meraviglioso, simbolo degli embyciclisti di tutto il mondo («L’em bycicleta è un gesto tecnico e atletico che racchiude il senso d’imponderabile tipico della “favolosità” del calcio, e in genere dello sport. “Andare em bycicleta” è dunque qualcosa di difficile, una prova di eccellenza che resta impressa nella memoria; è una sfida alla normalità, alle leggi della materia, in senso fisico. Ma è una sfida alla normalità anche in senso retorico, per provare a librarsi lontano dall’insostenibile pesantezza della chiacchiera sportiva. È acrobazia, è la follia dell’inconsueto, è tentare di guardare il mondo alla rovescia, e di leggere il contrario di quello che i “padroni dello sport” vorrebbero farci vedere. È anche, come dice Brera, “un salto mortale all’indietro”, forse nel passato quando “em bycicleta” ci andavano Peppin Meazza e Silvio Piola, Carletto Parola e Gigi Riva, fino a Marco Van Basten.» (dal Manifesto Em Bycicleta: per un presidio di fabulazione sportiva, dicembre 2003)
H come Hud e come Hof
Nel 1963 era uscito Hud il Selvaggio, un film di Martin Ritt, con un affascinante e ribelle Paul Newman; e i compagni a Cagliari cominciano a chiamare Hud Giggirriva. O come Norbert Hof, difensore del Wiener Sport Club e della nazionale austriaca che il 31 ottobre 1970 con una sconsiderata entrata da dietro spezzò tibia e perone della gamba destra di Gigi Riva.
I come Ichnusa
L’“isola a forma di orma di piede”: Ichnusa, la chiamavano i greci, molto tempo prima di scoprire la birra. Giggirriva, come Cenerentola, ha calcato Ichnusa nel 1963 e non ha più lasciato l’orma.
L come Leggiuno, come Laveno Mombello, come Legnano
Sponda lombarda del Lago Maggiore, ovvero sponda magra, rispetto ai “sciuri” della sponda piemontese. E magra davvero è stata la vita di Giggirriva bambino e poi ragazzo. Il calcio lo ha portato lontano, ma prima ha dovuto passare per Laveno Mombello – un posto da Renato Pozzetto… – e poi da Legnano, con quella improbabile maglia lilla: 23 partite e 6 gol nella stagione 1962-63, in serie C. Prima di partire, con poca voglia, per la Sardegna. Come diceva lo stesso Riva: «La Sardegna allora non era la Costa Smeralda, l’Aga Khan, era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione».