Il campionato in panchina_Piacenza-Seregno

dal nostro inviato Emiliano “el buitre” Fabbri

Quando vivi in Val padana sei abituato alla nebbia. Ci sono giornate in cui ti ci svegli, ci convivi e ci vai a dormire. Sempre con la nebbia. Ma quella fitta, che non vedi oltre la tua macchina, e che fendinebbia e retronebbia ti appaiono spese accessorie inutili. Sabato 18 dicembre è una di quelle giornate, e magari fosse solo sabato, perché è quasi una settimana che conviviamo con quella sensazione di nebbia perenne in cui non capisci che ore sono se non guardassi l’orologio. La mia ultima speranza è che, sotto il Po, la scighera lombarda lasci il passo a un timido sole emiliano. Ma quando scavallo il Grande Fiume, e non riesco a scorgerlo di sotto perché coperto dalla nebbia, finiscono le mie ultime flebili speranze. Lo stadio Garilli in quella nebbia ci sguazza, e i fari accesi già all’ora di pranzo non fanno altro che aumentare l’impenetrabilità della coltre grigia. L’ultima speranza è che si giochi. Che si inizi, ma che soprattutto si arrivi al traguardo del novantesimo. Per curiosità vado in campo, e da porta a porta c’è visibilità. Oddio, visibilità è una parola forte, ma almeno l’altra porta si scorge. L’arbitro è dello stesso avviso, e alle 14.30 si parte, o almeno questo è l’orario sul mio cronometro. Oggi al mio fianco in panchina ho per la prima volta Salvatore Bruno, entrato nello staff del Piacenza come allenatore degli attaccanti. Sasà ha fatto un centinaio di gol in serie B, e vederlo in panchina quasi mi dispiace, ma col Dio Tempo non si tratta, e anche lui ha varcato definitivamente la linea laterale del campo di giuoco. Quando Dubickas segna in tuffo di testa mi sembra un segno premonitore. Un gol da bomber vero al cospetto di Sasà Bruno! L’abbraccio in panchina sta a sottolinearlo. Poi la nebbia comincia a calare. Cala sempre di più. Sembra quasi non volerci far arrivare al novantesimo. Ormai non si vede più niente, nemmeno dalla panchina. Il quarto uomo alza cinque minuti di recupero. Intuiamo una lotta in mezzo al campo. L’unica cosa che riusciamo a vedere nitidamente è l’orologio. Manca poco ormai. Aspettiamo che dalla nebbia escano le squadre, einvece sbuca un nugolo di giocatori ospiti esultanti. Hanno segnato loro. Almeno così abbiamo capito. Il triplice fischio ci riporta negli spogliatoi dove ricostruiamo il fattaccio, che si traduce in un autogol beffardo. Unica consolazione: non l’abbiamo visto. Per me è l’ultima partita prima di Natale, e al netto dell’euforia che manca causa risultato, saluto tutti gli amici piacentini. Ma l’abbraccio più forte è per Alessandro. Auguri Briz, ci vediamo l’anno prossimo!

Poesia Football Club #1 – Ezio Vendrame

C’è davvero un che di poetico nel poter iniziare questo viaggio in compagnia di una compagine calcistica che è da decenni nel cuore di migliaia di tifosi, senza che loro, i tifosi, lo sappiano. Ed è meraviglioso farlo all’indomani di un avvenimento a suo modo calcistico – l’estrazione del turno degli ottavi delle coppe europee per club – che ha rappresentato il trionfo, inaspettato e per questo gradito, della poesia.
Perché se la poesia è attimo, respiro, imprevedibilità, stato d’animo, eros e thanatos, ribellione e rassegnazione, invettiva e cuore, odio e divinità (non importa quale), materia e nebbia, allora viva il poetico errore nel vorticare delle palline sbagliate.
La nostra squadra, il Poesia Football Club (o la Poesia Football Club, ciascheduno e ciascheduna scelga quale preferire, tanto per essere calcisticamente corretti) saluta il salutare errore nel sorteggio come fausto segno propiziatorio per il dispiegarsi di questa rubrica.

Che si inizi, dunque.

Con un poeta calciatore. Ezio Vendrame. Del calciatore si è detto tutto, forse troppo. Ci ha lasciato il 4 aprile del 2020, il calciatore. Ci ha lasciato un bel po’ di libri, il poeta. Qui non diremo dei suoi memoir cartavetrati, per i quali parlano già i titoli: Se mi mandi in tribuna, godo, Vietato alla gente perbene, Una vita fuorigioco.
Di Inamovibilità di un marchio (1997, Biblioteca dell’Immagine) diremo che è già avvicinamento alla poesia, florilegio di riflessioni e pensieri in libertà qual è.

La vita?
Un vuoto a perdere.
Ho fatto tardi,
ma tra il niente
e il niente
può ancora succedere
di tutto.

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Il campionato in panchina_Piacenza-Lecco

dal nostro inviato Emiliano “el buitre” Fabbri

In fondo il pallone è solo una scusa. Per divertirsi, anche per soffrire. Per condividere esperienze e fare nuove conoscenze. Per scoprire nuovi amici e ritrovarne di antichi. Per conoscere nuove persone, anche a seicento chilometri da casa. È così che Piacenza-Lecco diventa la scusa per rivedere Luciano De Paola, antico guerriero in una serie C2 d’antan di inizio anni Ottanta, quando mi affacciavo al balcone di casa mia e lo vedevo guerreggiare all’ombra del campanile di Frosinone, sul terreno di uno stadio già Matusa allora, e che lui contribuiva ad arare con le sue entrate. Quando ci rivediamo ricordiamo sempre quegli anni e quelle amicizie che gli sono rimaste nel cuore fino ad oggi.
Piacenza-Lecco è anche la scusa per rivedere Carlo Zotti, giovane promessa romanista, che ho visto esordire a inizio ventunesimo secolo con la maglia della Maggica, e che poi ha continuato il suo percorso in giro per lo stivale fino a diventare allenatore dei portieri del Lecco.
Ma Piacenza-Lecco è soprattutto la scusa per conoscere dal vivo Alessandro, uno degli esempi più belli di internet. Nel senso che i social network hanno il loro risvolto positivo se utilizzati a dovere, e il mare in tempesta di Facebook e Instagram ci ha portato a incrociare la nostra rotta, e finalmente oggi, al sole di una fredda Piacenza, due inconsapevoli ciociari si sono visti per la prima volta, rimanendo ancora più felici del primo incontro virtuale. Con Alessandro abbiamo le stesse origini, ma soprattutto la stessa passione, quel pallone che rotola e il volerlo raccontare in maniera disincantata e col sorriso sulla penna. Alessandro Miele scrive per diletto e in maniera eccelsa sul suo blog Il Miele nel Pallone, ed è uno che giocherebbe bene col Portiere Volante. Oggi purtroppo Alessandro ha assistito alla sconfitta del mio Piacenza per zero a uno. Ma questa è un’altra storia. Perché in fondo dietro a un pallone che rotola ci sono tante storie da raccontare…

Antialmanacco del calcio, il primo, vero libro volante

di Gianvittorio Randaccio

Io, prima di leggere con regolarità in rete la rubrica di Carlo Martinelli (che ora, qui, è diventata libro) non sapevo che l’inno dell’Union Berlino fosse stato interpretato da Nina Hagen o che Giuseppe F., nel 1971, andasse in giro spacciandosi per Giuseppe Zaniboni, giocatore della Juventus, firmando assegni falsi e non pagando al ristorante, e nemmeno dell’arresto dell’arbitro Oreste Dellarole al termine di un Rieti-Perugia del 1947.
La rubrica di calcio e inattualità, Pallonario, che Carlo Martinelli ha curato per un anno su Portiere volante, ha raccolto ogni settimana, giorno per giorno, storie, notizie e curiosità pescate su giornali e riviste dell’epoca e raccontando un calcio, e una società, che sembrano lontani millenni da ciò a cui siamo abituati oggi.
Portiere volante non è e non vuole essere un inno alla nostalgia, alla retorica della bellezza del calcio di una volta, dei numeri dall’uno all’undici e della differita del secondo tempo su Rai2: non è questa celebrazione del passato ciò che ci interessa e che fa dei racconti di Carlo Martinelli quella delizia che sono.

È lo sguardo, invece, ciò che colpisce, l’angolazione con cui queste vicende minime sono riprese, rendendole uniche e memorabili, degne di essere scritte e raccontate. Martinelli mette in fila fatti e misfatti più o meno importanti, osservandoli con occhio puro e disincantato, senza il filtro banalizzatore del racconto sportivo di oggi, infarcito di gossip, social, statistiche e inutilità varie. Inattualità allo stato puro, come ama dire Martinelli, proprio perché racconta il calcio come oggi non fa più nessuno, sia perché è da tempo scomparsa la memoria storica e sia perché è molto più facile e comodo raccogliere like e clic con titoli ammiccanti, invece che investire sulla bontà della notizia e sul modo in cui viene raccontata.
Giorno dopo giorno, Martinelli ci svela un mondo che abbiamo sempre avuto sotto mano e a cui non abbiamo mai riconosciuto la giusta dignità, insegnandoci a vedere le cose, anche le più piccole, con occhi nuovi e pronti alla sorpresa. E a me piace pensare che per noi credenti del pallone (il dio Eupalla, come diceva qualcuno), tristemente orfani di idoli ed eroi contemporanei, questo Antialmanacco possa diventare una specie di calendario laico da appendere al muro, che al posto dei santi festeggi ogni giorno gli eroi tragicomici raccontati da Martinelli: così il primo dicembre si ricorderà Victor Benitez, giocatore peruviano del Messina, il 12 novembre Giuseppe Murgia, calciatore sardo venduto in cambio di una capra, e il 7 settembre, magari, si celebrerà Diego Armando Maradona, perché non solo di sconosciuti si parla, va sottolineato. Un calendario senza anno bisestile, d’accordo, ma non per questo meno necessario, da consultare anche negli anni a venire perché, si sa, l’inattualità non passa mai di moda.

Il campionato in panchina_Piacenza-Padova

Emiliano “el Buitre” Fabbri

Quando supero il ponte sul fiume Po ed entro nella Primogenita spero di essermi lasciato dietro la scighera lombarda, e invece no, questa domenica la nebbia non ne ha voluto sapere di rimanere a nord del fiume e anche Piacenza è colorata di un grigiore autunnale. Quando arrivo allo stadio Garilli bisogna accendere già i fari, nonostante sia appena l’ora di pranzo. Oddio, non è quel nebbione che impedisce la nostra gara col Padova, ma una foschia densa che offusca le lampade accese sulle torri dello stadio. Che poi diciamoci la verità, non è tanto il freddo quello che ti frega, ma l’umidità!

Con questo must mi siedo in panchina per giocarci una gara difficile contro una squadra attrezzata per andare in cadetteria. Il tempo di assorbire quell’umidità che scende dal tetto nebbioso sopra lo stadio, che sul campo viene esibito a tutti i tifosi il “Tiraggir Garilli’s Edition”, produzione diretta del piede sinistro di Cosimo Chiricò. Forte ’sto Padova. Noi ci proviamo, e non dobbiamo fare nemmeno il minimo errore altrimenti… Ceravolo raddoppia. Vabbe’, andiamo nello spogliatoio sotto di due. Come due sono i cambi che fa mister Scazzola per provare a riprendere la partita, cercando sempre di evitare di subire il terzo gol… di Jelenic. Il Padova gioca col 4-3-3 e gli ultimi 3 hanno segnato. Tutto il tridente è entrato nel tabellino. I tifosi continuano a cantare perché vedono che al netto delle differenze tecniche, la squadra suda e onora la maglia bianch e russ. E allora la famosa bandiera è sventolata dall’ultimo arrivato, e ultimo entrato in campo: Filip Raicevic. Al suo primo gol col Piacenza, mette la testa su un cross e permette a tutti di tornare nella pancia dello stadio non dico felici, ma almeno con un pizzico di malinconia in meno. I tifosi ci chiamano sotto la curva. Per loro il risultato conta, ma conta ancor di più quanto si è dato: tutto. Applausi per noi. E ovviamente applausi per il Padova che chissà se rivedremo l’anno venturo ancora nel campionato di serie C.
Quando riprendo la via di casa la nebbia è rimasta lì, alta nel cielo, solo che adesso s’è fatto buio. Che poi diciamoci la verità, non è tanto il freddo quello che ti frega, ma l’umidità…

Il campionato in panchina_Piacenza-Renate

dal nostro inviato Emiliano “el buitre” Fabbri

Una delle cose belle del calcio è che a ogni partita rivedi qualcuno con cui hai condiviso qualche momento. Questa domenica al Garilli torna uno che ha scritto qualche pagina importante per questa società, vincendo campionati e diventandone capitano: Jacopo Silva. Per tutti “Apo”. Inizia così Piacenza-Renate, con l’abbraccio con Apo. Poi arriva la partita. Veniamo da due belle prestazioni in campionato e il passaggio di turno in Coppa di mercoledì a Modena dopo centoventi minuti e una decina di rigori. Non faccio in tempo a sedermi in panchina che abbiamo quattro dicasi quattro occasioni in due minuti. Ma quattro di quelle occasioni in cui ti guardi in faccia coi dirigenti vicino a te e con lo sguardo vi interrogate sulle congiunture astrali per le quali queste quattro occasioni siano state sciupate. Nei successivi minuti la musica non cambia, produciamo calcio a ritmo industriale, e quello sguardo interrogativo rimane, perché se non riesci a segnare quando giochi bene e produci palle gol allora pensi che alle congiunture astrali il Piacenza gli stia sui… pianeti. Così quando al quinto minuto l’arbitro ci fischia un rigore non sappiamo a che santo votarci, perché tutte le indicazioni scaramantiche portano a brutti pensieri. Ci pensa capitan Cesarini a farci finalmente urlare per un gol. Non facciamo in tempo a risederci che Andrea Corbari ci fa urlare di nuovo. Ora sì che in panchina scattano i primi sorrisi. Quando la nostra barriera devia una punizione di Galuppini nella nostra rete si affacciano ombre sui nostri volti.

Nel secondo tempo le cose non cambiano, perché questa domenica giochiamo veramente bene, teniamo i ritmi alti e facciamo gol. Anche il terzo. È Yusupha Bobb che col suo mancino decide di farci perdere la voce. È così che lascio lo stadio. Non prima di aver riabbracciato Apo e avergli fatto gli auguri per l’arrivo della sua piccola Ludovica. Ma una partita come quella di oggi merita un brindisi, e così mi rivedo con l’amico Marco di Piacenza per un aperitivo. Parliamo anche di pallone, perché in fondo il pallone è la scusa per stare insieme agli amici. Stasera me ne torno a Lodi così. Felice. E senza voce.

Il campionato in cucina_Inter-Udinese


dal nostro inviato Gianvittorio Randaccio

È da qualche tempo che ho un sospetto segreto, e cioè che Ignacio Pussetto non sia Ignacio Pussetto, ma bensì Novak Djokovic. Basta accostare le foto dei due per rendersi conto della loro estrema somiglianza, anche se le schede dei due giocatori dicono che Pussetto è alto un metro e ottanta e pesa 74 chili, mentre Djokovic è alto un metro e ottantotto e pesa 77 chili. Ho cercato delle informazioni on line ma nessuno sembra essersi accorto di questa cosa, e non è facile se stabilire se qualcuno li abbia potuti vedere almeno una volta nello stesso posto e alla stessa ora per confutare ogni dubbio. Certo, deve essere dura per un giocatore di tennis essere contemporaneamente l’attaccante dell’Udinese, correndo da una parte all’altra del mondo per giocare, chessò, Udinese-Verona quando solo poche ore prima magari eri a Pechino per un torneo internazionale. E uno potrebbe anche chiedersi come, se sei Novak Djokovic, leggenda multimilionaria del tennis, ti possa venire in mente di fingere di essere Ignacio Pussetto, simpatico calciatore argentino mai veramente esploso, ma chissà, la gente è strana e magari Djokovic prova un tale piacere nel giocare alla Dacia Arena che ha messo su tutto questo assurdo e inverosimile teatrino nonostante gli renda la vita un bel po’ complicata.

Ieri c’era Inter-Udinese e avrei visto volentieri Pussetto per cercare delle conferme a questa mia bizzarra idea ma, guarda un po’, Pussetto non c’era, pare per un infortunio, mentre Djokovic era a Parigi per il ritorno al tennis giocato dopo il k.o. agli Us Open. Mi è sembrata una strana coincidenza, e una volta di più mi sono detto che è evidente che se Djokovic è a Parigi per un torneo non può essere a San Siro per giocare contro l’Inter. Pussetto, tra l’altro, avrebbe fatto comodo all’Udinese l’altro giorno, soprattutto nel secondo tempo, quando il Tucu Correa in pochi minuti ha segnato una doppietta e all’Udinese sarebbero servite forza fresche per cercare di rimontare, magari con l’estro e i guizzi di questo argentino tecnico e veloce. E invece no, Pussetto non c’era, forse era a Parigi, e Deloufeu non è riuscito a risollevare le sorti dell’incontro che, alla fine, ha visto prevalere l’Inter in scioltezza.
È stato difficile, per me, vedere la partita, devo ammetterlo, per poter poi fare la solita cronaca dettagliata: questo infelice orario dell’anticipo della domenica, infatti, mi ha costretto a tenere il computer in bilico tra il tostapane e il bollitore, mentre pestavo l’avocado per il guacamole e poi tagliavo le zucchine per una veloce pasta da mangiare a pranzo. A questo proposito, mi chiedo se DAZN e la lega calcio non possano fare qualcosa per i poveri tifosi cuochi come me, che alle dodici e mezza di una qualunque domenica non possono godersi una partita in santa pace: sarebbe bello, magari, farmi arrivare una pizza intorno alla una e un quarto, quando c’è l’intervallo, oppure pensare a un robusto brunch in tarda mattinata per non soffrire la fame durante la partita o anche a un paio di panini da mangiare sul divano, facendo attenzione a non sbriciolare. Oppure, e forse sarebbe la cosa più facile, togliere questo benedetto anticipo delle dodici e trenta, che mi sembra una delle tante e inutili idee per promuovere un gioco che non ha nessun bisogno di essere promosso.

Inter-Udinese 2-0
Correa 60’, 68’.

Il campionato in panchina_Piacenza-Juventus under23


dal nostro inviato Emiliano “el buitre” Fabbri

Le partite infrasettimanale sono sempre scomode per chi fa del calcio un hobby. Come me. Bisogna far combaciare i turni lavorativi e gli impegni familiari, non solo i miei, ma anche quelli di mia moglie, perché al Garilli può arrivare anche la Juventus, ma mia figlia Sophia qualcuno a scuola dovrà pur andare a prenderla. Questa volta ci va Sara, colei che incastra la sua vita in base a un pallone che rotola sui campi di serie C. Io devo andare al Garilli. Sarà pure la squadra Under 23, ma il nome evoca sfide d’altri tempi, quando Garilli era il Presidentissimo del Piacenza tutto italiano e la Juve che sfidava era quella dei grandi. In attesa di tempi migliori, oggi ci interfacciamo con l’unica “seconda” squadra delle big. Quello delle seconde squadre era un progetto nato tra squilli di tromba mediatici per far crescere i propri giovani in casa, sull’entusiasmo dell’era calcistica in cui imperversava il fútbol della “masia” blaugrana. Ma le cose non sono andate esattamente come si pensava, e di seconde squadre ne è nata solo una, quella juventina, mentre le altre big si sono defilate.


Noi arriviamo a questa partita nel pieno di un periodo difficile, e l’ultima volta dal Garilli siamo usciti sotto i fischi. Stavolta però partiamo bene. Sembriamo un’altra squadra rispetto alle ultime uscite. Ritmi alti, intensità, azioni avvolgenti. Siamo sempre in procinto di schizzare dalla panchina per esultare ma ci manca sempre quel pizzico di qualcosa per farci saltare in piedi. Battiamo otto calci d’angolo in meno di mezz’ora, e su uno di questi finalmente esplodiamo. Andrea Corbari entra di prepotenza e col suo piedone la butta dentro. L’urlo di gioia rimbomba nella notte di Piacenza. Purtroppo non riusciamo a replicarlo, e all’inizio del secondo tempo ne paghiamo le conseguenze. Quando il tempo si conta ancora in secondi, la Juventus pareggia. Sempre da calcio d’angolo. Abbiamo troppa voglia di vincere. Ci proviamo mentre su Piacenza cala il freddo. Alla fine rischiamo anche la beffa, ma San Pratelli ci mette la manona e ci porta al triplice fischio delusi e contenti. Delusi per il risultato, contenti per la prestazione. Questo i nostri tifosi lo comprendono. Se una settimana fa per il pareggio 1 a 1 con la Giana Erminio siamo usciti sommersi dai fischi, stasera con il medesimo punteggio usciamo tra gli applausi. Perché come diceva il boemo Zdenek Zeman: ”Il risultato è casuale, la prestazione no”.

Il campionato in salotto_Inter-Juventus


Dal nostro inviato Gianvittorio Randaccio

Qualche settimana fa ho comprato un televisore, anche se in genere non lo guardo quasi mai: quello vecchio, però, non sarebbe andato d’accordo con il nuovo digitale terrestre, così, dopo attenti studi, mi sono procurato un 43 pollici di un marchio serio e affidabile e ho cominciato una nuova vita da moderato utilizzatore di tv. Le mie brevi ricerche mi hanno fatto diventare anche un piccolo esperto di questa fetta di mercato, così negli ultimi tempi se vado a casa di qualcuno controllo sempre il televisore (o i televisori, a volte), per cercare di capire se la mia scelta sia stata ponderata o meno, in relazione alle scelte degli altri.

Inter-Juventus la vedo con la Ester e qualche amico del gruppo a casa di Filippo, che dispone di un 52 pollici con un bel design, elegante, sui toni del nero, due piedini laterali, perfettamente inserito al centro di una parete del soggiorno, con un divano alla giusta distanza che permette un’ottima visione. Mi rendo subito conto che la qualità dell’immagine è ottima: niente rallentamenti o sfarfallamenti, buona definizione e colori brillanti ma che non affaticano troppo l’occhio. Con un monitor così grande nulla può sfuggire al telespettatore medio, anche grazie ai sempre più impietosi replay che le regie moderne utilizzano a profusione: ci si accorge facilmente, per esempio, che Dybala ha dei bellissimi occhi verdi, che Simone Inzaghi ha il doppio mento e tende a produrre leggeri fili di bava quando protesta veementemente e che il ciuffo di McKennie è simile in tutto e per tutto a quello di Mirko dei Bee-Hive.

Anche la partita si vede bene, per carità, ed è una partita che sembra partire benissimo, con il gol del cigno di Sarajevo Dzeko e con un’Inter che sembra padrona del gioco, anche se di occasioni, da entrambe le parti, non è che ce ne siano molte: il tempo trascorre tranquillamente, nonostante una certa tensione non abbandoni mai noi poveri tifosi. A un certo punto penso che sarebbe bello vincere 1-0, a corto muso, come piace ad Allegri e come fa sempre la Juve, e accarezzo quest’idea con una certa soddisfazione. Anzi, quando Perisic, in contropiede, fallisce il 2-0 sono quasi contento, il secondo gol non è previsto nel corto muso, a meno che poi la Juve non ne segni un altro a sua volta. O almeno credo.
La vera scossa arriva, ahimè, verso l’ottantacinquesimo: Marcello arriva misteriosamente da San Felice per vedere il recupero ed entra in casa poco prima che Dybala segni il rigore del pareggio, spostando evidentemente degli equilibri, molto più di Bonucci. E così niente vittoria, niente corto muso, niente crisi della Juve. Se fossi uno dei personaggi dei Topolino che legge la Gaia potrei dire Sob! oppure Sgrunt!, o anche Gasp! o Ulp!, invece sono con la Ester e mentre mestamente torniamo a casa non posso fare altro che pensare alle cose che vorrei dire ma è meglio che non dica.

Inter-Juventus 1-1
Dzeko 17’, Dybala 89’ (R).

Il campionato in panchina_Piacenza-Giana


dal nostro inviato Emiliano “el buitre” Fabbri

Erminio Giana era un sottotenente degli Alpini, eroe della prima guerra mondiale. Un ragazzo neanche ventenne sacrificato su uno dei monti della Grande Guerra in nome di non si sa quali ideali. Nella sua città però di ideali ce n’erano già nel secolo scorso, così decisero di dedicargli la locale squadra di calcio. La città è quella di Gorgonzola e la sua squadra è la Giana Erminio. Unico caso di squadra che porta nome e cognome di una persona, oltretutto neanche collegata al calcio o allo sport in generale, ma più simbolicamente al territorio che la rappresenta. La Giana, perché oggi così è conosciuta, ha viaggiato per anni all’interno della Lombardia, in campionati dilettantistici, fino a quando ha deciso di fare un salto triplo dalla promozione alla serie C e, cosa più importante, di rimanerci. Nel nome dell’alpino Erminio, i fautori di questa scalata sono due: il presidentissimo Oreste Bamonte e Cesare Albè: il Ferguson della Martesana. I due sono imprescindibili uno dall’altro, perché il presidente ha fatto la fortuna del mister. E viceversa. Albè è stato allenatore per oltre vent’anni, e neanche le retrocessioni lo hanno schiodato dalla panchina, e oggi è diventato vicepresidente. Con lo spirito degli alpini la Giana combatte ogni anno per la salvezza. Riuscendoci. Oggi viene al Garilli. Tra loro tante persone che ho conosciuto nella mia prima vita calcistica nei dilettanti lombardi da direttore del Fanfulla, e ritrovarsi tra i professionisti è sempre un grande piacere. Poi l’amicizia va bene, ma c’è una partita da vincere, cosa che vogliamo entrambi.


Questa è la classica partita che inizia col tepore di una domenica soleggiata di ottobre e finisce al bordo del tramonto, quando bisogna coprirsi dal fresco e dall’umidità che avvisano che l’inverno è alle porte. E la nostra partita rispecchia tale giornata, perché sotto il sole del primo tempo siamo più attivi e riusciamo ad andare in vantaggio con Rabbi, ma quando inizia il freddo non riusciamo a coprirci, e su un rimpallo nella nostra area piccola subiamo il pareggio. Al Garilli si aspettavano qualcosa di più, e dalle tribune non lo nascondono. L’uscita dal campo è sotto i fischi che rimbombano fin dentro gli spogliatoi. Esco dallo stadio quando ormai è buio, non prima di salutare Fabio il custode e Piero il magazziniere, uomini preziosi del Garilli. Me ne torno a Lodi. In auto la mia testa però rimane dentro gli spogliatoi, in testa mi rimbombano quei fischi. Stasera sarà dura andare a dormire…