di Antonio Gurrado
14 giugno 1990
Gioca l’Italia. Il Gran me ritrova il Piccolo me contrariato, incapricciato, sull’orlo delle lacrime perché più cresce più gli sembra che il mondo intero cospiri a un’abietta ingiustizia nei suoi confronti. La sfida serale agli Stati Uniti gli viene prima negata e poi concessa con degnazione, ma solo fino a fine primo tempo, per due motivi a loro modo inoppugnabili: s’è già dato abbastanza al televisore guardando nel pomeriggio Camerun-Romania sin dagli albori del collegamento con Bari, un quarto d’ora prima del fischio d’inizio, gioendo fino all’ultimo della vittoria degli africani, non solo vindici su Maradona (il Piccolo me è milanista e non ha digerito lo scudetto finito a Napoli a fine aprile non si sa come); inoltre la partita dell’Italia è inutile oltre che dannosa, inizia tardi, finisce tardissimo e gli Stati Uniti sono una squadra materasso. Il Gran me cerca di far ragionare i genitori del Piccolo me, che incidentalmente sono anche i propri, ma loro non lo vedono poiché appartiene a un futuro che, non coincidendo con i loro programmi sulla prole, non esiste.
Il Gran me cerca allora di far ragionare il bambino, cosa che non è più facile. Venendo da trent’anni dopo sa già il risultato della partita e sa già trattarsi di una gara non all’altezza delle attese dischiuse dalla rete iniziale di Giannini, che sembra promettere una goleada ma si rivela unica e sola; Vialli (annunciato eroe della spedizione domestica) dopo una mezz’ora ottiene di battere il rigore del raddoppio ma, col suono aspro della palla che incoccia sul palo, sembra venire ghigliottinata la prospettiva di punteggi che alla vigilia si favoleggiavano dal cinque a zero in su. Anzi, senza che il Piccolo me lo veda, verso fine partita tal Caligiuri sfugge chissà come alla barriera su un calcio piazzato e per poco non deposita il pareggio alle spalle di Zenga; rimedia Ferri che salva sulla linea.
Ma svelare al Piccolo me il risultato in anticipo sarebbe stato disonesto, oltre che disorientante, perché a quel punto il Gran me avrebbe dovuto scucirsi anche sull’esito complessivo del torneo e allora era meglio di no. Per questo gli parla e gli dice: «Tu non lo sai ancora ma il senso di Italia 90 puoi coglierlo solo tu che hai nove anni e mezzo e non ti fai distrarre troppo dalle partite, che alla fine sono solo partite. Sarà che sono più alti ma gli adulti non vedono i dettagli che scorgi tu, come le mani strette degli azzurri in tuta mentre entrano sul campo per l’inno; per gli adulti conta il risultato, la polemichetta, la diatriba tecnica su Azeglio Vicini che cambia formazione ogni volta. Baggianate, il senso del Mondiale non è questo. È nell’orrido gadget col sembiante di Ciao che hai voluto campeggiasse in cucina, e per fortuna è piccolo; è nel luccicante stemma di una nazionale esotica che hai ricevuto in omaggio col «Guerin Sportivo»; è nelle statuette degli azzurri in posa di gioco di cui hai visto la pubblicità e che non ti verranno mai comprate, ma che ricorderai per sempre; nella pila di guide illustrate al Mondiale – quella della «Gazzetta», quella del «Guerin», quella del Tv «Radiocorriere», quella del tautologico periodico «Il Mondiale» – che custodirai tutta la vita perché non sono solo di carta; soprattutto quella di «Famiglia Cristiana» che al centro ha un poster calendario su cui, al passaggio fra ottavi e quarti di finale, tuo padre smetterà di segnare i risultati nel tabellone «per lasciare che inizi a farlo tu».
Il Piccolo me dorme di nuovo con l’ultimo singhiozzo ancora in gola, non ascolta, forse sente con sensi che da adulti si perdono Bruno Pizzul che dal salotto quasi impreca sul rischiato pareggio: «Eh, bisogna stare attenti». La sua infantile, granitica convinzione nella superiorità del calcio italiano, che coinvolge anche individui ben più adulti di lui, lo farà risvegliare deluso, la mattina dopo, alla scoperta che la goleada prevista s’è risolta in un misero 1-0, con Vialli che non segna e Baggio che non gioca, senz’altro motivo che rimarcare la distanza incolmabile fra il sogno e la realtà.