Gigi Riva. Un sogno e un alfabeto [M-Z]

di Gino Cervi

M come Martiradonna
Mario Martiradonna, barese, difensore, fu insieme a Riva, a Pierluigi Cera e a Ricciotti Greatti, protagonista della promozione del Cagliari in serie A, nel 1963-64 e, sei anni dopo, della vittoria dello scudetto, 1969-70. riva_campoAll’ennesima voce di mercato che dava Giggirriva in partenza per una delle grandi squadre del Nord, disse al compagno: «Per favore, resta. Devo finire di comprare la cucina.» Già, perché al tempo le cose andavano ancora così: e un calciatore, seppure campione d’Italia, doveva fare i debiti per comprarsi la cucina di casa. Giggirriva ovviamente restò.

N come No
Giggirriva ha sempre preferito dire di no: alla Juve, all’Inter. Come Bartleby the Scrivener. Se ci fosse Melville forse allora Giggirriva accetterebbe che qualcuno trasformasse la sua vita in un romanzo, forse il più bel romanzo sulla storia di un calciatore.

O come Ossa rotte
Tibia e perone grazie a Hof, nell’ottobre del 1971; ma nel marzo 1967 era stato il portiere del Portogallo, Americo Ferreira Peres, a spezzargli il perone della gamba sinistra. Ma una volta capitò anche che, nel corso di un allenamento, una sua fortissima staffilata colpì il braccio di un ragazzino che stava dietro la porta e gli spezzò il braccio.

P come Padre
Il padre di Gigi Riva, Ugo Riva, era tornato dalla Prima guerra mondiale con una medaglia al valore. Operaio in fonderia, morì nel 1953 trafitto da una scheggia di ferro schizzata via da una pressa. Come Josto.

Q come Quixote
Il Campidano come la Mancha. Giggirriva come don Quixote. Una vita fuori dal coro. Continua a leggere “Gigi Riva. Un sogno e un alfabeto [M-Z]”

E adesso, tiremm innanz

di Gino Cervi

Ho incontrato per la prima volta Gianni Mura, trent’anni fa. Mi ero appena laureato. Mi presentai con l’“accredito” di essere amico e compagno di università di Renata Viola, figlia del suo amico Beppe.

Ingenuamente, allora pensavo di poter fare il giornalista sportivo. Gli scrissi e mi rispose (come faceva sempre con tutti). Poi mi invitò una sera a cena. Andammo a mangiare Al Rifugio Pugliese, dal Muciaccia, una trattoria non lontano dalla redazione di «Repubblica», allora in piazza Po. Ricordo che ero maledettamente in soggezione. mura--k14D--1020x533@IlSole24Ore-Web
Mi disse che per fare il giornalista il tempo era scaduto. In senso relativo, e che mi riguardava: perché per farlo sarebbe stato meglio che mi fossi svegliato molto prima, così da bazzicare giornali e redazioni fin dall’adolescenza, e mica passare anni a studiare filologia. Ma forse voleva dire anche che il tempo era scaduto in senso un po’ più generale, almeno per come forse intendeva lui il giornalismo, quello sportivo in particolare: fatto di anni e anni di relazioni dirette, di corse e di partite viste dal vivo, di trasferte, di spogliatoi annusati, di dietro le quinte praticati con abilità e confidenza. Insomma, un mondo fatto di molta umanità, non tutta bella e buona, vissuta però sempre in prima persona. Per consolarmi mi disse che però si poteva sempre coltivare la passione per lo sport, e per le storie di sport, anche «scrivendo la storia della Pro Vercelli in ottave ariostesche».
Disse proprio così e ci rimasi un po’ male, a dire il vero. Che strano modo di liquidarmi, pensai. Però questa storia della Pro Vercelli e delle ottave ariostesche mi è rimasta sempre in testa. E l’ho capita forse solo molto tempo dopo. Era un invito alla curiosità, alla contaminazione di mondi e conoscenze diverse (per usare dei paroloni), e anche dei linguaggi, un invito al trovare il modo, per quel che è possibile, di trasformare una passione in un mestiere.

Credo che si possano usare per Gianni Mura le parole che un paio d’anni fa Gianni Mura stesso scrisse nella prefazione di un bel libro di Enrico Currò sulla biografia di Mario Fossati, che Mura aveva conosciuto bene al seguito di tanti Giri d’Italia e Tour de France. Aveva detto che voler bene a Fossati era stato come innamorarsi di un roseto: «Si sa che ci sono le spine, ma quando fiorisce riempie l’aria». E che non esisteva «miglior maestro di chi non ha mai voluto esserlo».
Ma andrebbero altrettanto bene le parole che Mura scrisse nel dicembre del 1992, quando morì un altro Gianni, Gianni Brera: «Questo oggi ti devo: la coscienza che non si può essere avari, nella vita e nel mestiere, che bisogna spendersi, meglio dieci righe in più che dieci in meno, semmai qualcuno le taglierà. Meglio un’ora in più con gli amici che un’ora in meno. Meglio il fiotto che la goccia. Meglio il rosso che il bianco. Meglio la sincerità, anche quando può far male, che la reticenza o la bugia. E adesso basta, tiremm innanz, come ha detto uno della tua sponda».

Adesso, anche noi, Gianni, tireremm innanz. Però che gran magone.