London Playing

di Maurizio Zoja

Durante le ultime settimane dell’anno appena terminato, giornali, siti e blog musicali ci hanno ricordato in tutte le salse che sono passati quarant’anni dall’uscita di London Calling, uno dei capolavori dei Clash e della storia rock tutta, pubblicato nel dicembre del 1979 e oggi ristampato in varie versioni più o meno deluxe e più o meno inutili. E pensare che ai tempi il disco, doppio, venne messo in vendita al prezzo di un album singolo, dopo una dura trattativa tra la band e i discografici della Cbs. Con cinque sterline ci si portava a casa diciotto canzoni, diciannove considerando anche la Train In Vain posta in chiusura della quarta facciata e non riportata sulla copertina, mandata in stampa quando i Clash ancora stavano lavorando sulla musica. London_Calling
Una copertina che più bella era difficile immaginare, con il bassista Paul Simonon che scaglia il suo strumento a terra durante un concerto al Palladium di New York, incazzato nero perché i buttafuori del locale non permettevano al pubblico di alzarsi in piedi, e in effetti restare seduti mentre i Clash suonavano era un vero peccato.

Quello che non tutti sanno è che in quel disco c’è anche un pallone che rotola, in un campetto di Pimlico, Londra, e che quel pallone è stato importante per quattro musicisti che rischiavano di perdersi e invece si sono ritrovati.
Quello di Causton Street è il classico campetto sgarrupato, ci sono anche i canestri ma chi è che gioca a basket, a Londra? Eppure i potenziali talenti non mancherebbero, ma la pallacanestro in Gran Bretagna non è mai decollata. Le porte invece non ci sono, ma servono delle vere porte per giocare a calcio? Tutto intorno, alte reti di recinzione mezze piegate, ovviamente vale usare le sponde, non c’è il fuori. Portieri volanti, c’è bisogno di dirlo proprio qui?
Il campetto confina con gli altrettanto sgarrupati Vanilla Studios, una sala prove sopra un garage nella quale i Clash si danno appuntamento tutti i giorni nel primo pomeriggio per provare i pezzi del loro nuovo album, il terzo della serie. Sono passati due anni dal loro esordio ed è già cambiato quasi tutto. Addio alla sala prove di Camden Town, che era stata ricavata in un magazzino delle ferrovie dello stato britanniche, preso in affitto dal manager Bernie Rhodes. Addio soprattutto a quest’ultimo, troppo accentratore, troppo rompicoglioni per un gruppo in cui le personalità non semplici erano almeno il 75 per cento, facciamo pure la totalità. Addio anche a Sandy Pearlman, produttore il cui lavoro su Give ‘em Enough Rope, il secondo album, aveva lasciato tutti insoddisfatti. Per quel disco Joe Strummer e Mick Jones, cantanti, chitarristi e autori delle canzoni del gruppo, erano volati fino in Giamaica, alle radici del suono in levare che fin dal disco d’esordio si era sposato all’anima punk della band. Più che ispirarli, però, il soggiorno nella terra di Bob Marley (che nel frattempo aveva compiuto il percorso inverso trasferendosi a Londra) aveva spaventato i due: sono andato nel posto in cui tutte le facce bianche sono un invito alla rapina, canteranno poi. Tornati nella loro safe european home, i Clash erano una band in cerca di identità. Il punk esisteva ancora? Boh. Di certo John Lydon, dopo la fine dei Sex Pistols, aveva già pubblicato un album con la sua nuova band e sulla stampa si parlava già di post punk. Di certo loro non sarebbero stati post senza mai essere stati niente, perché qualcosa erano stati, altroché. Continua a leggere “London Playing”