Il calcio non gli piaceva

di Paolo Teobaldi

[…] Ceniamo fuori?
Non era una domanda. Lo portò in un ristorante che sapeva lui, dalle parti di San Babila, dove spesso si incontravano i giocatori dell’Inter, come dimostrava un’ossessiva galleria di foto alle pareti.s-l1600
Lui teneva per l’Inter o il Milan?
Per nessuna delle due: il calcio non gli piaceva.
Come!? Non gli piaceva lo sport?
Al contrario, avrebbe dovuto saperlo: lui amava lo sport, quasi tutti gli sport e li praticava con ottimi risultati (il record provinciale del giavellotto era ancora il suo…); tutti meno il calcio: il suo corpo e la sua mente non andavano d’accordo col calcio. Se n’era accorto già da piccolo… Erano sottoporta, lui era smarcato, gli arrivava il pallone ma proprio in quel momento si distraeva a guardare una mariola, a contarne i puntini neri sulle elitre rosse: sette!… o le mutande rosa di una femmina che saltava la corda; né le cose erano migliorate con l’arrivo della televisione; finalissima dei Campionati del mondo, rigore assegnato all’Italia, il pallone già sul dischetto, Coso stava per prendere la rincorsa… ma ecco che una tortora col collarino scuro attraversava il vano della finestra; o la sàmara di un tiglio si staccava dal ramo e andava ad atterrare qualche metro più in là, sul sagrato della Canonica, dove avrebbe potuto attecchire se non ci fossero stati i conci; certo però che i tigli doveva averli ideati e progettati una mente superiore, o il Padreterno o Leonardo da Vinci in visita a Pesaro, per inventare un sistema di inseminazione così aereo e autonomo, mentre loro umani per fecondare una donna dovevano…, anche se, dovendo scegliere…. GOOOL!… S’era perso il gol. Gli altri esultavano, ruggivano, si sbracciavano ma lui non aveva visto niente. Non solo: non gliene importava niente. La stessa scena era accaduta qualche volta allo stadio Tonino Benelli di Pesaro, tanto che alla fine suo padre aveva rinunciato ad accompagnarlo, e più di una volta sarebbe accaduta anche a San Siro, dove lo zio Checco l’avrebbe trascinato alla domenica a orari incivili facendogli saltare il pranzo, con due cuscini nerazzurri da piazzare sotto il sedere, contro l’umidità.
Perché poi lo zio teneva per l’Inter?
Perché era la squadra dei signori.
Perché, lui era un signore?
Uè, pistola! Ma cosa sei, del Milan? Sarai mica un comunista?

[Questo bellissimo pezzo fa parte del Padre dei nomi, romanzo di Paolo Teobaldi pubblicato dalle Edizioni E/O nel 2002 (pp. 87-89).]

Solo spettacolo gli spettatori

di Delio Tessa

Mi avevano detto in Cordusio che per raggiungere lo Stadio bisognava prendere il 15, l’ho preso ed eccomi qui in un mondo nuovo per me. Mi guardo in giro: dov’è lo Stadio? Potrei chiederlo a questo manovale ma mi vergogno. Bisognerebbe fingere per lo meno un accento esotico ma così… un milanese a San Siro alla vigilia dell’incontro Italia-Inghilterra, che non sa dove dirigersi… eh via… Cacciato alle spalle da quel tambureggiamento ossessionante, mi affretto verso alcune piante ritte ai margini della prateria, sentinelle della campagna che vive al di là. Come se la nuvolaglia pesasse loro sul capo, reclinano i ciuffi verdi.tessa2
So – per sentito dire – che a destra c’è l’Ippodromo: ma questo recinto a sinistra con ingressi, biglietterie e tribune, cos’è? Un pelo e lo prendo per lo Stadio. Ma infine mi par troppo basso, troppo piatto, e mi ricredo a tempo. È il Trotter. […]
Lo spettacolo della moltitudine adunata è terrificante. La senti mutevole, infida, indifesa, esposta a tutti gli influssi. Un uomo raccolto in un suo pensiero vi è solo come in un deserto. Le squadre intanto escono e si allineano. Ho la certezza di esser l’unico che assiste al memorabile incontro completamente digiuno delle regole del giuoco e senza aver mai visto una partita di calcio. Dov’è l’area di rigore? Quali sono i terzini? Ho riconosciuto i portieri soltanto perché eran davanti alle porte. La mia ignoranza era così perfetta che nemmeno sapevo che al secondo tempo le squadre si scambiano i campi. Ritenendo le posizioni immutate per me gli Inglesi continuavano a vincere e invece perdevano. Ebbi per solo spettacolo gli spettatori. Prima che la partita incominciasse le gradinate dello Stadio erano color caffè e latte chiaro, il colore degli impermeabili, ma poi cos’è successo? È comparsa una tinta incarnato pallido, eran tutte facce, quelle migliaia di facce rivolte, come tanti fanalini da una parte. Cinque minuti dopo l’intervallo il pallore è scomparso e ha dato luogo a un rosa diffuso che in chiusura di partita si è andato fissando in un rosso vivo. Il sangue era salito alle teste congenstionando lo Stadio. Ho imparato così a contare i punti favorevoli dall’intensità della colorazione dei volti. Quando l’arbitro fischiò la fine credevo che la vittoria fosse nostra. Ma un signore, scendendo, uscì con questa frase: «Potevamo vincere se non fosse…» e allora… come mai – mi son chiesto – abbiam perso? Ho saputo poi che i campioni eran rimasti campioni e i maestri maestri. Il compiacimento generale, la soddisfazione di tutti potrebbe indurmi a trarre dall’esito una morale, ma le morali appartengono al mondo oggi defunto delle favole; la realtà le ha sepolte.

[Estratto da un articolo di Delio Tessa per «L’Ambrosiano» del 16 maggio 1939. Ringrazio Sergio Giuntini e Gino Cervi e il loro Milano nello Sport (Giunti, 2014), dal quale ho tratto questo gioiello. (G.R.)]

L’ombra del campione

di Gianvittorio Randaccio

Il titolo del romanzo d’esordio di Luca Crovi, L’ombra del campione, è a dir poco azzeccato. Uno, infatti, se compra il libro convinto di trovarci dentro la storia del campione citato, che poi è il celebre Giuseppe Peppìn Meazza, a cui dal 1980 è intitolato anche lo stadio di San Siro, può rimanerci male, 8772138_3372309perché, in realtà, il Peppìn è, per l’appunto, un’ombra che aleggia sui personaggi e le loro storie per tutto il romanzo, con un paio di fugaci apparizioni nella nebbia delle prime pagine (nonché un’altra in un Duomo molto affollato) e la ricomparsa finale, più sostanziosa, con una chiusura a effetto sicuramente riuscita.
Il lettore che ammira Meazza, però, ha di che consolarsi: in realtà la vera protagonista dell’Ombra del campione è Milano, per essere più precisi la Milano del 1928, in piena epoca fascista, immersa nella scighera («la poesia del Milan»), in cui pulè e malnatt si affrontano con un codice d’onore oggi sconosciuto, mentre misteriosi attentati sconvolgono la città fino nelle fondamenta.
Crovi ridà vita al glorioso commissario-poeta De Vincenzi, protagonista dei gialli di culto degli anni Trenta di Augusto De Angelis, in un continuo omaggio a Milano: alla sua cucina, al suo dialetto, ai suoi luoghi. A volte sembra quasi di trovarsi davanti a una guida turistica, e non a un romanzo: le storie di alcuni luoghi e dei loro nomi (come la leggenda di San Vittore, per esempio, o le vicende della Gioconda, il tram “funerario” che attraversava la città) sono accurate e dettagliate, e le descrizioni della cassoeula, della busecca, della torta di michelach hanno lo stesso peso di una scena importante o di un dialogo risolutivo, magari in dialetto. «In trippa veritas», non per niente, dichiara a un certo punto il Ballerini.
Milano è una protagonista che parla e si racconta attraverso i ricordi e le meticolose ricerche di Crovi, che ha attinto tanto dalla sua bisnonna quanto da libri e archivi. Di suo ci ha messo l’inventiva, un intreccio che riesce a mettere al loro posto storia, realtà e leggenda e una scrittura piena di mestiere ma anche di vero e autentico sentimento, che finisce per accompagnare con discrezione e leggerezza questo viaggio in una Milano ormai dimenticata.

[Luca Crovi, L’ombra del campione, Rizzoli, 2018, pag. 210]