di Antonio Gurrado
3 luglio 1990
Gioca l’Italia. Il Gran me ritrova il Piccolo me identico, fazzoletto tricolore e tutto, con identica compagnia nell’identica casa di amici che ha visto le più belle vittorie degli azzurri finora. Tutto cospira alla reiterazione, non fosse per il dettaglio sfuggito agli organizzatori del Col, del resto così capillari: finora l’Italia ha sempre giocato all’Olimpico e s’è fatto un gran parlare della necessità di restare sempre a Roma per evitare scompensi alla nazionale, nel suo incedere immacolato verso il titolo fatto in casa. La semifinale invece è in programma a Napoli per via di un arzigogolo, di un machiavello. L’idea sottesa è che lasciare a Napoli la semifinale della parte bassa del tabellone sia un favore implicito all’Argentina – che viene misticamente identificata in Maradona allo stesso modo in cui nell’Ottocento l’aristocrazia borbonica accomunava Garibaldi e il diavolo – e che, vincendo il proprio girone, sarebbe così arrivata in carrozza in finale senza mai scasare del San Paolo. Ergo, la semifinale della metà bassa del tabellone viene trasferita a Torino e quella napoletana viene trasposta nella metà alta del tabellone, dove c’è l’Italia, con gran scompenso delle buone abitudini azzurre. Ma l’Argentina non ha vinto il girone, s’è salvata per il rotto della cuffia e, ripescata, ha intrapreso una tournée che tramite Torino e Firenze l’ha portata in semifinale, guarda caso, a Napoli. Contro l’Italia. Sotto gli occhi dei tifosi di Maradona.
Tali retropensieri dettati dal malanimo sono talmente banali che perfino il Piccolo me, all’età di nove anni e mezzo, è abbastanza filosofo da compitarli; nonostante che gli striscioni – “Diego nei cuori Italia nei cori”, “Maradona Napoli ti ama ma l’Italia è la nostra patria” – assicurino il contrario, ma in quinta elementare si ha già abbastanza esperienza dell’animo umano per sapere che l’ipocrisia è talmente subdola da ingannare talvolta perfino il dichiarante. Solo, per diradare queste nubi, ci vogliono fatti; e arrivano incarnati nel solito Schillaci che sulla solita zolla, quella dove la palla suole rimbalzare, afferra la respinta di Goycoechea su bordata di Vialli e la schiaffa in rete per l’1-0 dopo un quarto d’ora o giù di lì.
Altri fatti percorrono lo spirito scientifico del Piccolo me, a rassicurarlo; finora l’Italia non s’è mai fatta rimontare; di più, non ha ancora subito una rete e mai ne subirà; certo, si è dimostrata piuttosto avara in attacco (a detrimento di una canzoncina televisiva che, nei mesi di avvicinamento al Mondiale, aveva come ritornello “Forza alè azzurri più forti non si può / ad ogni partita vogliamo cento gò”) ma quando l’eliminazione è diretta un gollettino basta e avanza. Così finisce il primo tempo e dalla cucina della casa di amici vengono servite pizzette e altri festivi nutrimenti, il cui sapore prefigura quello della finale, di nuovo all’Olimpico. Ci si dimentica quasi che si gioca a Napoli, e perfino il Piccolo me – già nevrotico, già ossessivo, già pronto a farsi venire le convulsioni per ogni deragliamento dalla routine – dimentica che le abitudini non vanno mai cambiate. Continua a leggere “Ciao_L’Italia del Novanta_3 luglio”