di Gianvittorio Randaccio
Uno dei film in concorso all’Offside Film Festival di questo disgraziato 2020 è stato Lobanovskiy forever, un video documentario dedicato al leggendario allenatore della Dinamo Kiev e della nazionale sovietica, che a me, a essere sincero, è sempre sembrato più un personaggio pittoresco che un grande allenatore. Forse, però, mi sbagliavo.

Innanzitutto guardando Lobanovskiy forever ho scoperto che Lobanovskiy, prima di allenare, è stato un calciatore talentuoso, un dribblomane poco interessato al gioco di squadra, uno che partiva sulla fascia, faceva decine di finte e poi, forse, crossava. I giornalisti intervistati nel film sostengono anche che i suoi calci d’angolo fossero leggendari, che segnasse anche dei gol con questi suoi fantastici calcio d’angolo, ma che purtroppo non esistono statistiche a riguardo, e che quindi bisogna crederci un po’ sulla fiducia. In più, mentre gioca a calcio, Lobanovskiy diventa anche colonnello dell’Armata Rossa e si laurea in ingegneria meccanica. Questa cosa del Lobanovskiy calciatore, soldato e ingegnere mi fa pensare che Lobanovskiy abbia vissuto due o tre vite nella sua vita, sempre uguale ma sempre diverso, sempre adatto alla situazione che deve affrontare (anche se, con grande sincerità, lui stesso a un certo punto dichiara apertamente che «ero stupido quando ero calciatore» e che non si sarebbe mai schierato in campo se ci fosse stato lui ad allenarsi). Una volta diventato allenatore, a fine anni Sessanta, Lobanovskiy smette di essere genio e sregolatezza e diventa una specie di macchina umana, un precursore se vogliamo, una specie di manager-professore che controlla i suoi giocatori in campo e fuori dal campo, coinvolgendo dipartimenti universitari ed esperti scientifici, alla ricerca del “metodo di allenamento perfetto” e di un’organizzazione di gioco in cui tutto è numerico, oggettivo e valutabile. Lobanovskiy dà vita ad allenamenti nuovi, durissimi, spingendo al limite delle possibilità fisiche i propri giocatori che ogni volta che sembrano cedere ritrovano poi risorse nascoste per rendere più di prima: Blokhin, pallone d’oro nel 1975, sostiene che in molti vomitavano per lo stress e la fatica dopo gli allenamenti, e che giocare una partita per loro voleva dire “riposarsi” dopo le fatiche della settimana. Il risultato è che in breve tempo la Dinamo Kiev diventa una squadra fortissima, i cui giocatori corrono come matti, sapendo sempre cosa fare in ogni parte del campo, come se fossero telecomandati da Lobanovskiy, che dichiara grande ammirazione per il “calcio totale” di Rinus Michels, allenatore dell’Olanda di quegli anni. La Dinamo vince la Coppa delle Coppe nel 1975 e per molti in quel periodo è veramente la squadra più forte d’Europa.
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